SOCIAL MEDIA, ARMA DELLA RIBELLIONE O DELL’IMPERO?

Insieme a terrorismo, maltempo e temi economici, è l’informazione l’argomento su cui più si discute in questo periodo. Al centro del dibattito, in particolare, i social media e il loro “lato oscuro”: fake news e post verità sono le parole del momento e oggi, dopo più di 10 anni dall’apertura dei primi social network, nel mondo ci si interroga sull’affidabilità delle notizie che vi circolano e sulle possibilità di un utilizzo fraudolento dei nuovi mezzi per influenzare la percezione e le scelte politiche delle persone.

Dopo il recente rapporto di CIA, FBI e NCA sulle presunte attività di hackeraggio organizzate dalla Russia di Putin per condizionare le presidenziali americane, i social media sono divenuti addirittura terreno virtuale di spy story e nuova guerra fredda. E anche in Italia l’informazione è uno dei temi del momento, soprattutto dopo l’appello di Beppe Grillo all’istituzione di giurie popolari per decidere – immaginiamo via web – sull’attendibilità delle notizie riportate da giornali e tv. Come a dire, i media tradizionali sono ormai inaffidabili e “di regime” mentre la verità è appannaggio del popolo dei social.

Sull’altro fronte grande eco ha avuto nei giorni scorsi la presa di posizione di Roberto Burioni, medico del San Raffaele di Milano nonché gestore in prima persona di una pagina Facebook (http://www.facebook.com/robertoburioniMD/?fref=ts)attraverso la quale, in qualità di professore di virologia, commenta le notizie sui vaccini, spiega i principi scientifici dietro le più recenti ricerche e smonta le notizie false. Particolare clamore ha generato un suo post: “I commenti vengono tutti cancellati […] questo non è un luogo dove della gente che non sa nulla può avere un civile dibattito per discutere alla pari con me […] tutto quello che scrivo è corretto e, inserendo io immancabilmente le fonti, chi vuole può controllare di persona la veridicità però non può mettersi a discutere con me […] qui ha diritto di parola solo chi ha studiato e non il cittadino comune. La scienza non è democratica”.

Qui non ha diritto di parola il cittadino comune, la scienza non è democratica. Sic.

Parole che stridono in un mondo in cui tutti, dopo la rivoluzione di Internet e dei social media, ci sentiamo in grado di accedere a qualsiasi argomento e riteniamo un diritto ormai acquisito poterne discuterne nelle arene pubbliche del web. Ne abbiamo avuto prova nei mesi scorsi, durante la campagna referendaria, quando la popolazione italiana è stata chiamata non soltanto a deliberare su un argomento complesso quanto può esserlo una modifica costituzionale ma ne ha anche abbondantemente dibattuto sui social con discutibile cognizione di causa.

Il tema in discussione non è ovviamente il diritto o meno delle persone di esprimere la propria opinione sui social in merito a qualsivoglia argomento, ci mancherebbe! Quanto il grado di consapevolezza collettiva della potenza (e della pericolosità) del mezzo quando chiunque può scriverci qualsiasi cosa e, soprattutto, quando diventa lo strumento principale, se non addirittura l’unico, di accesso delle informazioni. Perché spesso in comunicazione il volume e l’intensità del messaggio può anche compensare la poca veridicità o autorevolezza della fonte. Ancor di più in un contesto come quello fotografato dall’Istat, che recentemente ha rilevato come l’Italia sia un Paese nel quale una persona su cinque non sfoglia un giornale nemmeno una volta alla settimana e non apre un libro da più di un anno. Né va al cinema, a teatro o anche solo a un concerto, per non parlare di musei e mostre. A fronte, secondo i dati diffusi da Facebook Italia, di oltre 23 milioni di italiani attivi ogni giorno sul più diffuso social network del mondo.

Stiamo affidando ai social, quindi a noi stessi, il compito dell’informazione cioè del moderno sapere? Illuminante in questo quadro un recente articolo di Alessandro Baricco su Repubblica (http://www.repubblica.it/speciali/esteri/presidenziali-usa2016/2016/11/10/news/trump_baricco-151760532/) che parla di un’umanità ormai da tempo avviata “verso una mutazione culturale, e forse antropologica, a cui abbiamo affidato la nostra speranza in un mondo migliore: eliminare tutte le mediazioni che si possono eliminare. Quando è impossibile farlo, limitare le mediazioni al minimo. Servono degli esempi? TripAdvisor, Airbnb, Amazon, Wikipedia. Perché passare da un’agenzia di viaggi, quando posso scegliermi e prenotarmi l’albergo da solo? La risposta ci sarebbe: perché l’agente di viaggio ne sa qualcosa e tu non ci capisci una fava. Questa risposta è la risposta che negli ultimi vent’anni è morta, è diventata falsa, è risultata inutile. Il motivo è semplice: se io sostituisco al parere di un esperto quello di un milione di gente inesperta che però una sua idea ce l’ha, arrivo più vicino alla verità, ci arrivo più velocemente, ci arrivo spendendo meno soldi e ci arrivo in un modo che mi dà una certa idea di libertà: di fatto, una situazione irresistibile. […] La vera conseguenza è che da qualche anno la gente si sta allenando a fare a meno degli esperti, cioè delle élite. Ti alleni per anni in piccole cose (la scelta del ristorante, la cura per il piede dello sportivo, le ricerche copiate da Wikipedia) e inizi ad acquisire una certa sicurezza di te e soprattutto una silenziosa capacità di ribellarti alle élite culturali: quelli che hanno studiato, quelli che sanno. Nel tempo accumuli anche la sorda convinzione di essere stato per lungo tempo vittima di una truffa: se te la puoi cavare benissimo senza quelle élite, evidentemente per anni quelli ti hanno fregato, portandoti via soldi, tempo, controllo sulla tua vita, indipendenza, libertà.

Se è così, anche i mezzi di informazione classici sono quindi ritenuti da una sempre più ampia maggioranza come “media-zioni” da eliminare perché espressione di quell’élite di cui i più si sentono vittime di una truffa? E se è così, la comunicazione può anch’essa essere assimilata a una scienza invece da difendere, come fa il professor Burioni, dal qualunquismo e dal complottismo dilagante?

Alla prima domanda credo che si possa rispondere con un sì, senza dubbio alcuno. Ne ho avuto prova di recente con un piccolo esperimento. Alcuni giorni fa ho visto un video dell’attore Denzel Washington (http://twitter.com/JingleBeIIis/status/817107880306507776) il quale, rispondendo a una giornalista, parte con un’analisi molto dura sul mondo dell’informazione: “Se non leggi i giornali sei disinformato, se invece li leggi sei informato male. Quali sono gli effetti a lungo termine di troppa informazione? Una delle conseguenze è il bisogno [dei media] di arrivare per primi, non importa più dire la verità. Quindi qual è la responsabilità di voi giornalisti? Dire la verità, non solo arrivare per primi. Adesso viviamo in una società dove l’importante è arrivare primi, chissenefrega, pubblica subito! Non ci interessa a chi fa male, non ci interessa che sia vero. Dillo e basta, vendi! Se ti alleni puoi diventare bravo a fare qualsiasi cosa. Anche a dire cazzate”.

Un’opinione che personalmente non condivido del tutto o almeno penso che non valga per tutta la stampa in generale e necessiti di molti distinguo. Decido comunque di condividere il video via Twitter. Ho un account attraverso il quale ogni tanto, tra le varie stupidaggini, posto anche contenuti riguardanti il mondo della comunicazione, non ho un gran numero di follower e l’interazione di solito è abbastanza limitata. Ebbene, mai avuta così tanta interazione, mai avuti così tanti retweet, cuoricini, citazioni come in questo caso. È così, il tema della stampa “cattiva” tira, esalta e trova sui social un riverbero forse esagerato. Soprattutto se a veicolarlo è un volto noto, un attore che identifichiamo come “buono” per i ruoli che ha interpretato. Se lo dice John Q allora è vero! Sarebbe interessante sapere quanti di coloro che hanno condiviso idealmente e materialmente quel tweet abbiano una conoscenza approfondita dei meccanismi della stampa o leggano quotidianamente un giornale. Intanto, però, hanno contribuito a che il video venisse visualizzato migliaia di volte.

Comunicazione e giornalismo sono scienze e quindi vanno difese dagli eccessi di democratizzazione? Non lo so. Se ci sono delle scuole, delle facoltà universitarie, degli albi e dei professionisti di esperienza che lavorano in questa industria probabilmente dovrebbe essere così. Ma è chiaro che non possa essere così. È nella natura stessa dei social media fare di chiunque un opinionista, un comunicatore, un divulgatore, un giornalista, un intrattenitore. Ne è la chiave del loro successo e un destino ineludibile. Non resta quindi che accettarne le conseguenze e appellarsi all’etica dei singoli e alla responsabilità di chi organizza e gestisce le piattaforme. Avendo però magari prima capito se i social media, in queste Star Wars dell’informazione che stiamo vivendo, rappresentino la Ribellione o se, invece, non siano ormai già diventati l’Impero.

autore

Ferdinando De Bellis

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