L’ANDREA DORIA, LO STOCKHOLM E LE PR

La comunicazione di crisi che avrebbe potuto riscrivere la storia, quella notte al largo di Nantucket

Ormai, per fortuna, quello che accadde la notte tra il 25 e il 26 luglio del 1956 al largo di Nantucket, nell’Oceano Atlantico settentrionale, lo sappiamo: il transatlantico italiano Andrea Doria venne speronato al traverso dal transatlantico svedese Stockholm per un’errata lettura dei dati radar da parte dell’equipaggio scandinavo.

Eppure, per lungo tempo, la responsabilità dell’accaduto venne attribuita all’imperizia dell’equipaggio italiano, e in particolare del suo comandante, Piero Calamai.

In questi giorni è uscito un libro scritto dal terzo ufficiale dell’Andrea Doria, Eugenio Gianni, che ripercorre quei tragici momenti. La prefazione del volume, edito da Mursia, è di Fabio Pozzo, penna genovese di Secolo XIX e Stampa, da sempre attento alle cose di mare e autore, qualche anno fa, di quella che a tutt’oggi è probabilmente l’inchiesta giornalistica sui fatti di Nantucket (“Assolvete l’Andrea Doria”, Longanesi).

Ebbene, delle parole di Giannini, quelle che colpiscono di più riguardano proprio la gestione della comunicazione nei mesi successivi al disastro.

L’equipaggio italiano, così come la compagnia Italia di Navigazione, proprietaria della nave, si chiuse in un silenzio totale, ritenendo che il processo apertosi a New York per chiarire le responsabilità fosse l’unica sede nella quale raccontare la propria versione dei fatti.

Gli svedesi, invece, non si limitarono all’intervento nelle aule di giustizia americane. Iniziarono a dire apertamente che l’Andrea Doria non aveva manovrato correttamente, a ridimensionare l’intensità della nebbia scesa quella notte sul mare e a contestare la capacità degli ufficiali italiani di interpretare le carte nautiche.

Tutte falsità clamorose, finalizzate a coprire, invece, la loro inesperienza e la scarsa prudenza mantenuta a fronte di quelle difficili condizioni meteo. Eppure, a tutt’oggi, nell’immaginario popolare, le responsabilità svedesi non emergono così chiaramente. “Avremmo dovuto difenderci con le pubbliche relazioni”, sottolinea nel suo libro Giannini. Così non fu. Al punto che il comandante Calamai – che venne convinto dai suoi uomini solo all’ultimo a lasciare la nave, e che era pronto a inabissarsi con essa, dopo aver guidato le operazioni di abbandono nave – venne in fretta dimenticato da tutti, e quasi considerato il responsabile della tragedia.

Con il senno di poi, verrebbe da dire che, all’epoca, una strategia di comunicazione di crisi capace di mettere ordine a quei fatti, avrebbe davvero potuto fare la differenza. E fare sì che non si dovessero attendere così tanti anni per restituire l’onore a un comandante e un equipaggio valorosi che hanno scritto una pagina indelebile della storia della marineria italiana.

autore

Nicola Comelli

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